mercoledì 30 giugno 2010

Taranto Mia.

Sono nata in una cittá bellissima,abbracciata da un golfo e dalla Storia.
Mia nonna mi racconta che quando era giovane, a Taranto c'era la spiaggia, e lei faceva il bagno nell'acqua pulita.

In quella cittá vi ho trascorso diciannove anni, prima di allontanarmene, prima che parlarne e scriverne diventasse difficile e doloroso.


Bagnata da due mari, il castello Aragonese volge lo sguardo a entrambi, ne spartisce le acque, al limitare dell'isola che ospita il Borgo Antico.
La sera ti fa star male, con la sua bellezza semplice.


____Poi i tuoi occhi spaziano, e lo vedi_____il mostro.



Immaginate una splendida ragazza. Occhi blu, come Mar Piccolo e Mar Grande, e dentro profonditá e mistero, come i vicoli della Cittá Vecchia.
Il naso é dritto e liscio, come il suo lungomare.
La bocca carnosa e rossa, d'invitante promessa, di parole calde e vibranti. Come la sua gente, pittoresca e accattivante, viva.

Adesso immaginate una ferita da taglio, aperta e sanguinante che corre da un capo all'altro del suo viso, e l'imbruttisce, lo snatura.
Le riempie gli occhi di angoscia, ogni volta che si guarda allo specchio e ció che era si scontra con quello che é diventata.
Immaginate che a seguito di questa violenza abbia perso la gioia di vivere, che siano arrivate le nuvole nere del disincanto e della rassegnazione.
(E come darle torto)

Questa é la mia cittá.
Una bellissima ragazza sfregiata.

L'impianto siderurgico piú grande d'Europa la divora, la tortura, inquinando le sue acque e bloccandole il respiro.
I proprietari del mostro ignorano, fingono di non sapere, sanno che migliaia di persone non possono rinunciare al proprio lavoro anche se gli impianti non sono a norma e gli operai respirano la morte.
Le pecore hanno mangiato erba alla diossina, le persone formaggi alla diossina.
CATENA ALIMENTARE, la chiamano.

Molti anni fa i miei genitori cercavano un appartamento in affitto, io non ero ancora nata; ne stavano visitando uno molto bello, molto grande e a prezzo stracciato, in un quartiere periferico della cittá.
Si chiedevano come fosse possibile che costasse cosí poco.
Mia madre si sporse alla finestra, e fu tutto chiaro.
Lo spettacolo desolante del palazzo di fronte completamente annerito dalle polveri dell'impianto, portate dal vento. Lenzuola bianche stese ad asciugare e divenute grigie.

Questa é la mia cittá.

E' vero che sono fuggita
E' vero che non tornerei a viverci.
E' vero che ne parlo con rabbia
E' vero che mi sento impotente
E' vero che non capisco chi, lí, ci é rimasto.

Ma

è vero anche
che

l'amo infinitamente
e amo i ricordi che risveglia in me quando ritorno, solo per un po', alla mia vecchia vita.
Amo quando mi fa pensare a mio padre, perché ho potuto conoscerlo solo in quei luoghi, e per poco tempo.
Amo sapere che sono tarantina
Amo non vergognarmene
Amo conoscere il mio dialetto
Amo il mio mare
Amo il ponte girevole
Amo anche le cozze
Sí.

Amo Taranto, per quello che é
ma soprattutto
per quello che é stata
e
per quello che potrebbe essere
in un futuro
non scontato.



Il mostro NO
LO ODIO.

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Oggi i RIVA, proprietari dell'impianto, sono indagati per disastro ambientale.
Che giustizia sia fatta, una volta per tutte.
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domenica 27 giugno 2010

Sere d'estate, frutta e stronzate.


Un caldo tremendo, metropoli ardente.
La pelle incollata alla sedia, e le nove di sera che sembrano non arrivare mai.
Due amiche un po' annoiate, sudaticce. Cena fredda, pasta a volontá.

E frutta, as usual.

I miei migliori amici sanno che ne consumo quantitá industriali, di ogni tipo.
E' la mia dipendenza, una delle tante.
Come andare in giro per casa con lo spazzolino in bocca, non posso farne a meno.
Come la scrittura.
Come le persone.

Osservare la gente, coglierne i gesti, le posture, gli sguardi mi affascina terribilmente.
Soprattutto mi piace scoprire quelli che appartengono solo a un individuo e non a un altro, quei pezzetti d'identitá che nessuno puó strappare.

Serena,per esempio, spesso riporta indietro una ciocca di capelli col mignolo, mentre parla. Lo fa solo in particolari momenti del discorso, il movimento della mano é in totale armonia con l'espressione del viso, con gli occhi e le parole.
Le sottolinea, le accarezza col dito.

Mia madre, invece, ha un modo di guardare, di guardarti quando qualcosa non va o hai detto una cazzata, che é assolutamente suo.
Il mento un po' in su, la testa leggermente inclinata da un lato, un guizzo delle sopracciglia, e quello sguardo, che se recitassi un'enciclopedia non potrei eguagliare.
Potenza del non verbale.

M'incanto ogni volta, é inevitabile.

Stasera Serena ha messo in ordine la ciocca mentre parlavamo di frutta.
Cioé, della Teoria della Frutta.

Alle elementari c'era sempre l'esercizio: collega con una freccia l'immagine al nome corrispondente.
Noi abbiamo iniziato ad abbinare noi stesse, poi le persone che costellano la nostra vita, ai frutti.

Serena é una pesca.
E' dolce, ma non troppo, stucchevole mai. Ha la pelle morbida, é di buon carattere ma é anche decisa. Estiva, anche se guardandola non lo diresti. Una pesca di solito non ti tradisce, non é nel suo stile.

Io sono un'arancia.
Dopo un attento confronto con la mela, l'agrume ha prevalso.
Una scorza un po' ingombrante, a volte fastidiosa, e dentro, a seconda di come viene scelta, puó rivelarsi molto aspra, anche insopportabile, oppure piacevole, dolce e dissetante.

Poi é stato il turno degli ex.
Niente nomi, stavolta...

"E (bip) cos'é?"

"Mmm allora...potrebbe essere un ananas, ma no, in realtá a me l'ananas non piace...Ecco forse una mora, perché é molto invitante, se trovi quella buona é davvero buona, ma puó anche deludere."

"E cresce tra i rovi."

"Esatto! Lui é un po' cosí, come gli gira, dipende dai giorni. E (bip), invece?"

"Eeeeeh, troppo complicato, fammici pensare...troppo, troppo complicato. Non perché lui sia complicato, perché dev'essere un frutto che ti frega...che non é come appare. Ecco! Una ciliegia. Le ciliege sono belle da vedere, sembra che promettano chissá che, in realtá peró non sono un granché. Nonostante questo, quando cominci a mangiarle non riesci a smettere, e va a finire che devi correre in bagno!"

"Sí, allora decisamente una ciliegia. Tra l'altro le ciliege stanno sempre tutte insieme..."

"Infatti, la ciliegia vive in branco. Appunto."

"E (bip), cosa dici?"

"Uhm. Non so...un'altra ciliegia mi sa."

"Insomma a te piacciono le ciliege!! Argh."

"Sí, cavolo. La ciliegia é proprio subdola, ora che ci penso."


Dopo é stata la volta di amici, amiche, parenti e simili.

"Secondo te (bip) cosa puó essere?...Per me una fragola, perché é molto graziosa, sa di pulito..."

"Sí, sono d'accordo. Se (bip) é una fragola, allora (bip) é una banana!! E' chiara, maliziosa, accattivante e ha carattere pur essendo dolce."

"ahahahhahaha!! Sí, ci sta! Una difficile: (bip)!"

"Eeeeeh...forse l'uva sultanina, perché non piace a tutti, ma chi l'apprezza l'apprezza tantissimo."

"Io, per esempio, l'adoro!"

"Ancora ancora...tua sorella cos'é?

"Mia sorella é una fragola, senza dubbio. Bellissima, una forma perfetta, mai in disordine, un gusto che piace, che oscilla tra lo zuccherino e l'acidognolo. Un frutto affascinante."

"Mio fratello é un ananas, credo. A parte che gli piace moltissimo...é un frutto tropicale, che si adatta bene. E' una persona calda, che piace a molti ma é particolare."

"uao...vediamo un po'...(bip)?"

"Allora, lei secondo me é un mandarino...intanto perché é piccolina, e poi é un frutto meno forte dell'arancia, ma gli somiglia, sa farsi valere quando vuole, mantenendosi piú dolcino. (bip)?"

"...forse un kiwi, perché é un frutto buono, ma che si nasconde..."

"Sí, é un frutto sottovalutato. Secondo me anche i kiwi si sottovalutano. Hanno del gran potenziale, ma é come se temessero di tirarlo fuori. Continuiamo! (bip)?".

"Lei é un'albicocca. Ti dá tutto di sé, un sapore carico, intenso."

"Ah si? Bello...Con le altre mie amiche non é semplice, hanno tutte un bel temperamento, quindi non saprei, forse delle arance...Ma abbiamo dimenticato la frutta secca eh!"

"E' vero. quella si addice ai prof., penso. (bip), ad esempio, per me é una noce."

"aahahahh!!! Sí, potrebbe essere. Grande guscio, sapore forte, coinvolgente. Un frutto importante, non é da tutti."

"Sí. Aaah, adesso che mi viene in mente, quel ragazzo, (bip), lui secondo me é un fico."

"Un fico? Sei sicura? I fichi, uno tira l'altro...é un frutto buonissimo, ti prende un sacco, non riesci a smettere...non so se conosco dei fichi. Mi sa di no."

"Eh si i fichi sono cosí, appunto...non so, mi dá quest'impressione. Ma magari non é cosí. Mi piacerebbe scoprirlo."

"In che senso, eeeeeeh?!?!"

"Cretinaaaa!!!! Ahahahahah!!!"


Morale: SE TI PIACE LA FRUTTA, MANGIATELA TUTTA.

Conclusione: SIAMO ALLA FRUTTA.

venerdì 25 giugno 2010

Gaivota.


Siamo tutte e due sole, stasera.

Sedute, o sdraiate, la stanza é simile,
la tua un po' piú grande della mia.
Finestre spalancate per il caldo, e luce spenta per evitare le zanzare.

Io e te,
momentaneamente francesi, cittá diverse
il sangue é lo stesso

tu meta e metá di me
io metá e meta di te

sorelle da una vita.

Oggi mi hai regalato una canzone portoghese
l'hai tradotta per me

una frase non l'ho capita
mi hai detto

"é poesia, mi piace quello che mi fa immaginare"

ho visto
le mie braccia
lunghe kilometri e kilometri di Francia

abbracciarti
al confine con la Spagna

presque.






http://www.youtube.com/watch?v=BgQeJ6BqRLI

martedì 22 giugno 2010

Covering loss with words

Da quando sono nella ville lumière, a volte mi capita di pensare che detesto non essere tra i miei libri, quelli di casa.
Perché nei miei libri mi cerco, e spesso mi trovo.
Ogni stato d'animo ha la sua corrispondenza all'interno di qualche pagina che ho giá letto ed esplorato, riguardato e poi, forse volontariamente, dimenticato.
Un archivio poco ordinato, nel quale nessun altro potrebbe addentrarsi senza perdere di vista il motivo della sua visita.
Il fatto stesso di cercare é per me un'operazione quasi catartica, mi spinge a concentrarmi non piú su me stessa, ma su quello che qualcun altro ha scritto per me, perché io ritrovassi il senso di ció che provo nelle parole partorite da un'altra mente, tanto diversa e tanto simile alla mia, in fondo.

Ieri ero alla Shakespeare Library, a Saint Michel.
Libri accatastati l'uno sull'altro, e odore buono di sfogliare antico, di ricerche senza tempo.
Gironzolavo piuttosto annoiata tra i testi in inglese, combattuta tra l'inevitabile attrazione per la carta stampata e la consapevolezza di una non adeguata padronanza della lingua, quando il mio campo visivo ha catturato il nuovo libro di Eve Ensler, "I am an emotional creature". Un'istantanea rivelazione. Quel titolo mi ha ricordato quello che realmente sono, che sono abituata a sentire e sentirmi.
Forse mi sento ancora, ma non mi ascolto piú molto.
Le parole scritte sono il mantello col quale mi copro, parlo di me per mettermi a tacere.

A volte,peró, soprattutto al risveglio, sono nuda, completamente esposta a emozioni recondite e immediate.
Sono un neonato dopo il bagnetto, sul fasciatoio un attimo prima che l'asciugamani e il calore umano addormentino il freddo.
Ognuno trema per motivi diversi e ugualmente importanti.

Piú interessante é scoprire cosa, o chi, riesce a restituirti il tepore.



La festa della musica parigina.

(quattro amici
ritmi diversi
a ogni angolo danze sfrenate
trenini in piazza
il riso facile
e
sorrisi di sconosciuti
gesti d'innamorati

che non sono io
ma non importa

la felicitá é bellezza da ammirare
anche quando non é tua.)



Una poesia che ho ispirato.

(scrive
pensando a quello che sono io
al dove
al come
al quando
e mi coglie
in quello che ho dentro
pur conoscendomi da lontano
mi forgia
a immagine e somiglianza
di come sono veramente.)



Il biglietto del ritorno da Parigi.

(Non ho dimenticato
il posto da dove arrivo
né il posto dove andró.

Bologna
Cascais
i vostri visi amici
l'estate portoghese
la mamma
e
mia sorella
non uno
ma due soli nel mio sistema

nella testa
l'oceano.

C'é sempre tempo per tornare
ma che sia tra non molto
lo preferisco.

...Forse lo pensa
anche quel gabbiano
parigino.)



Un elettrone.

(Conversazioni e contagi
folie à deux
marlene kuntz e altre storie
dentro giri vorticosi
attorno a nuclei lontani
di desideri e ricordi
dolori vecchi e nuovi
scoperte
comprensione
e
tenerezza distante.)



Un errore di "lettura".

(sprofondata nel libro
testa china
la metro che corre
e
la tua fermata
corre anche lei.

Te ne accorgi tardi
ti ritrovi a sorridere
come un'idiota
felice del giro in cittá

ti senti libera
sottoterra

ce n'é di gente strana
a questo mondo.)

mercoledì 16 giugno 2010


A Taranto, nella piazza di fronte alla palazzina dove abita mia nonna, da anni sono in corso i lavori per la realizzazione della nuova chiesa. Il vecchio edificio, di modeste dimensioni e dall'architettura semplice, grazie alle generose donazioni dei fedeli e alla solerzia pubblicitaria dei sacerdoti, ha lentamente ceduto il posto a una costruzione monumentale e immacolata, pronta ad accogliere stuoli di credenti.
In questa nuova location si é svolto l'episodio che racconto attraverso le parole di mia nonna, che me ne ha parlato candidamente stasera al telefono.

NONNA: Nella nuova chiesa hanno messo una statua grande, alta, tutta bianca, e io oggi la stavo guardando perché non riuscivo a capire cosa fosse.
Poi é arrivato don Giuseppe, che mi ha detto, vedendomi che la osservavo:"Bellissima, eh?", e allora io ho risposto: "Mah don Giusé, veramente a me piacciono le cose tradizionali...che cosa rappresenta, la Madonna?".
Lui mi ha risposto: "No Mirá, é l'angelo del Signore, che col dito in su dice alle pie donne, arrivate al sepolcro, che Gesú é risorto".
A' nonn, io gli ho detto: "Ah si?? E allora don Giusé, stasera, dopo la messa, riunisci un po' di persone e spiegalo, che non si capisce".
E difatti cosí é stato.

Ho cercato di conservare il linguaggio colloquiale che io personalmente adoro e trovo molto divertente, e probabilmente per chi conosce mia nonna e potrá immaginare la scena, il quadretto apparirá piuttosto simpatico.

In ogni caso, credo che da questo scambio di battute sia facile intuire la contraddizione di una Chiesa che cerca di guadagnarsi il cielo predicando la semplicitá ricoprendosi d'inutili fronzoli, per venire poi bruscamente riportata sulla terra dall'umiltá disarmante di un'umanitá che merita il paradiso pur preferendo il legno al marmo.

Il passero solitario (Leopardi non me ne voglia)


Un prato davanti a me.
Verdissimo, fiorito, placido. L'ideale point de vue, oggi ho bisogno di pensare con gli occhi. Dietro questi due specchi, infatti, una mente confusa, imbottita d'insofferenza e inquietudine, sulla quale calare un sipario d'erba come questo, accogliente mantello che nasconda quello che non voglio far vedere di me, a me stessa prima che agli altri.
Qualche giorno fa ho chiesto a due amici quale superpotere sceglierebbero, se avessero la possibilitá di riceverne uno, e la mia domanda é risuonata stupida, insignificante.
In effetti lo era anche per me, in fondo. Eppure, questo pomeriggio ha acquisito un senso.
Stavo osservando un passero che zompettava tranquillo proprio sul prato che avevo eletto ad aspira-pensieri, e mi sono accorta, inaspettatamente, che lo invidiavo. Avrei voluto essere lui, senza memorie, senza elucubrazioni, senza me.
Subito dopo ho pensato che in realtá non avrei mai scambiato la mia vita per la sua, se non per qualche ora, giusto il tempo di mandar via malinconie e riflessioni.
E allora, la fantasticheria puerile della possibilitá di metamorfosare in qualunque altro essere vivente diverso dall'uomo, e poi ritornare in un attimo quella che sono, ha assunto un'importanza esistenziale.
C'é una canzone, tra quelle che mi spingono a cercarmi e ritrovarmi quando mi perdo, che dice "si parte per vedersi ritornare". A me piacerebbe viaggiare cosí, a volte, mutare quando lo desidero, abbandonarmi e di nuovo adottarmi in un rinnovato amore per ció che ho il privilegio di essere.
Credo che imparerei ad apprezzare e comprendere meglio, forse, le mie piú intime incoerenze e le altrui diversitá.
Gli occhi non sono fatti per pensare, comunque, é per questo che alla fine sono tornati al servizio del cervello, vero tiranno e gestore della baracca, mostrandomi gli ultimi giorni, causa del mio malessere e del mio tentativo di estraniamento.
Giorni di distanze create da malintesi e fraintendimenti, di brevi rancori ed esplosioni di rabbia circoscritta.
L'instabilitá dei rapporti tra le persone continua a sconcertarmi. Splendide complicitá trasformate improvvisamente in distacchi, incomprensioni divenute sfide a chi scappa via dall'altro piú velocemente; soprattutto mi atterrisce la facilitá con cui vengono alzati altissimi muri, e la difficoltá successiva di abbatterli.
Se si trattasse di muri reali, sarebbe vero il contrario, ma i muri impalpabili delle relazioni sono paradossalmente piú forti, elastici, resistono.
Nel mio caso, quando avverto la presenza di queste pareti invisibili e glaciali, sento mie le parole di De André, quando cantava "Tu prova ad avere un mondo nel cuore, e non riesci a esprimerlo con le parole".
Vorrei urlare "ma che diavolo facciamo, perché adesso ci ignoriamo, che stupidi che siamo", e correre e abbracciare e sfondare quel divisorio assurdo d'indifferenza.

...Questo é ció che vorrei.

Intanto, peró, invidio i passeri e tendo le distanze.

martedì 8 giugno 2010

Eppure non ci sono gabbiani a Parigi.


Chissá perché, amo scrivere di notte; puó darsi che i pensieri si lascino finalmente acchiappare, resi piú docili dal sonno.
Periodo di movimenti, turbolenze emotive e momenti catartici.
Pochi giorni fa, un gabbiano passeggiava indisturbato sul prato del jardin du Luxembourg.
Eppure non ci sono gabbiani a Parigi.
"E' uno a cui piace viaggiare", mi ha suggerito mia mamma con un sms, mentre l'osservavo incuriosita e nelle orecchie mi passava il pianoforte di Ludovico Einaudi. Certo, non ci avevo pensato, che stupida.
Il pennuto ha le ali, non ha bisogno di biglietti aerei e progetti.
Lui, di essere nel posto giusto al momento giusto, se ne frega. E soprattutto, poco importa, dice, che a Parigi non ci sia il mare.
Una pozzanghera puó diventare il piú grande degli oceani, se sai come guardarla.
E' questione di saper scegliere le proprie felicitá, ed essere consapevoli di poterle conservare.
Quel gabbiano sa di poter volare in qualunque momento, ed é tutto ció che gli serve.
Io, per esempio, volo ogni volta che mia nonna mi videochiama, da quando ha imparato a farlo attraverso il computer.
Vedere il suo volto a mille kilometri di distanza, sentirla radiosa per questo nuovo, inatteso regalo, con tutto l'entusiasmo dei suoi settantasette anni e le sue attenzioni al mio, di volto, agli orecchini che porto e che mi chiede di farle vedere, il panorama dalla mia finestra che cerco di mostrarle rischiando di far cadere il pc dal settimo piano, il piacere zuccherino di ascoltarla mentre dice: " Che bella piazza, ah ma c'é traffico, che bei palazzi...", e infine osservarla mentre mi saluta perché mia sorella é in linea e vuole parlare anche con lei.
A queste e altre meraviglie ho pensato, seduta a gambe incrociate di fronte a Notre Dame, in un sabato sera alternativo di solitudine scelta e, per questa ragione, appagante.
Qualche turista intorno, forse, si sará chiesto quale malinconia potesse aver spinto una ragazza a rimanere sola in una notte tersa e mite di giugno parigino.
Cosa potevano mai saperne, loro, di quanto in alto stessi volando?




(Perché se la libertá non é in me, non la troveró in nessun posto.) Fernando Pessoa