giovedì 31 ottobre 2013

Bilanci(at)o.

Ottobre è in dirittura d'arrivo, novembre è alle porte e sediovuole come dice mia nonna tra due mesi e un po' il 2013 finirà. E' tempo di stilare un breve bilancio dell'anno, operazione che potrebbe rivelarsi pericolosa considerando che decido in pieno possesso delle mie (ridotte) facoltà mentali di tralasciare i sessanta giorni che verranno.

Ritengo di potermelo permettere perché mi tocca prendere in considerazione anche gli ultimi mesi del 2012, discretamente merdosi, se vogliamo. Le prime parole chiave che mi vengono in mente sono: coliche renali. Ah, quale piacere. Iniziate in agosto, con un paio di puntate al pronto soccorso, medici e infermieri che mentre ti contorci dal dolore, prima ti chiedono perché gli antidolorifici non sei andata a comprarteli in autonomia - come se fosse la cosa più naturale del mondo andare in giro per farmacie di turno alle sei di mattina piegati in due - poi ti piazzano finalmente una sacrosanta flebo e alla fine ti chiedono con aria minacciosa "ne vuoi un'altra?" e davanti alla tua faccia perplessa aggiungono "ok come vuoi, se sei a posto così vai a casa". Non lo so, devo decidere io? Che sono, caramelle? Al che mimi un BOH risparmiandoti giusto il sonoro, alzando le sopracciglia e abbassando gli angoli della bocca, e te ne vai con un centinaio di chili in meno di fiducia nell'umanità. E va bene, succede.

A settembre torni al lavoro. "Lavoro", torni a farti schiavizzare per dieci ore al giorno alla modica cifra di duecentocinquantaeuro al mese, lo fai perché allo scadere dei classici sei mesi di stage la prospettiva è l'assunzione. Alé! E invece no, due giorni prima della fine ti comunicano che ci dispiace, sei brava bella e taaaanto intelligente, ma te la prendi nel culo perché non possiamo assumere. No, un mese fa non lo sapevamo, "dall'alto" non ci avevano dato ancora una risposta. Dall'alto. Intendiamo dal cielo? No perché se è così, sono duemila anni che qua tutti aspettano che succeda di nuovo qualcosa e non succede un cazzo, quindi avreste potuto dirmelo anche con un po' di anticipo. E va bene, succede.

E arriviamo così a fine ottobre. Ok, che faccio adesso? Facile, cerco un lavoro vero! Talmente facile che i mesi passano, i curricula pure, a centinaia. Fa il suo trionfale ingresso il 2013.
Qualcuno chiama, vai a colloquio, sorridi e mostri quanto sei potente, o meglio lo saresti se all'università avessi imparato a FARE qualcosa invece che far finta di saper fare qualcosa.
"Riceverà un feedback, positivo o negativo che sia, entro una settimana". Ah-a. Quello che ancora non abbiamo capito, è che per i selezionatori la parola feedback, peraltro liberamente rubata all'inglese - a provare che è più facile standardizzare tutto piuttosto che sforzarsi di personalizzare le conversazioni - è il jolly che viene sfoderato per concludere l'incontro. D'altra parte, forse sarebbe peggio se alla fine di un colloquio ti dicessero "senta dottoressa noi l'abbiamo chiamata prima di tutto per fare database, poi per capire se per caso possa esserci utile in qualche misura, e siccome non lo è se ne vada pure a fanculo". Sarebbe più onesto, ma meno politically correct, tanto per scippare un'altra espressione di quotidiana ipocrisia rubata agli anglofoni. E va beeeeeene, succede.


Succede anche che mentre consegni la sintesi di quello che non hai imparato a fare pure all'oceano dentro una bottiglia di vetro e al piccione viaggiatore - che non si sa mai - trovi un lavoretto da baby-sitter, così, tanto per raggranellare qualcosina. Ora, premetto che i bambini, con i loro occhietti vispi, i sorrisi da orecchio a orecchio e i musi lunghi fino alle ginocchia, il moccio al naso - quando non è sulle mani dopo una faticosa esplorazione - e le loro lagne perenni, i bambini sono belli, NESSUNO DICE IL CONTRARIO. Il problema è che non sono opere d'arte. I bambini non stanno fermi, non li puoi ammirare e basta. Se così fosse, veramente, sarebbero la mia passione. Ma i bambini hanno la stramaledetta abitudine di parlare, muoversi, correre, rompere i coglioni e quindi mi dispiace, saranno belli ma NO GRAZIE. Preferisco altre bestie, tipo cani e gatti (non se la prendano gli amorevoli genitori di esaltati pargoletti, io mica me la prendo se qualcuno mi dice che preferisce le bionde sotto il metro e sessanta. Eddai).
Vabbè fatto sta che mi accollo a pagamento due perle sotto i dieci anni, e fin qui ok. Il problema fondamentale è che si accollano pure i sopramenzionati genitori, sconclusionati al punto da dimenticare di recuperare i propri figli, dimenticare di pagarmi, dimenticare a casa l'occorrente per lo sport dei bambini, dimenticare di chiamarmi con un minimo di anticipo per avere la mia disponibilità, probabilmente dimenticare anche di averli, dei figli (ogni tanto). In tutto questo, durante uno dei pomeriggi trascorsi in sua compagnia, il piccolo che ho in custodia decide di raccogliere da terra con non-chalance una merda di cane. Secca, ma sempre merda è.
E va bene, succeeeeeede.

A marzo ne hai le palle piene di cercare "il lavoro vero" e dopo aver cestinato anche l'idea di metterti in proprio - perché soldi non ce ne sono, finanziamenti neanche - cominci l'ennesimo tirocinio, dopo aver trascorso lunghi mesi in un vortice di negatività nel quale hai risucchiato senza pietà parenti amici e l'allora fidanzato. Come abbiano fatto a non lanciarti - per sbaglio, s'intende - dal balcone, metterti del veleno per topi nel caffè o perdere un coltello dentro il tuo stomaco, resta un mistero. Si vede che mi circondo di gente misericordiosa.
Che poi, a questo punto non è che la smetti di pestare i maroni a tutti come se fossero acini d'uva e cercassi disperatamente il profumo del mosto selvatico, continui a farlo per altri lunghissimi mesi quando ti rendi conto di essere bloccata dentro giorni disgustosamente uguali e trafitta, sì è questo il termine giusto, lasciatemi fare la melodrammatica, da una sensazione di mancanza di prospettive che manco un novantaseienne allettato.

Per farla breve - come avevo scritto al principio, ma si sa che la coerenza non è il mio forte - in un turbinio di umori pesanti e pseudo-crisi isteriche - spesso in concomitanza del ciclo, dico a mia discolpa, perché da un paio d'anni sono un ormone vagante in quei giorni - arriva l'estate, il caldo, il porcalaputtanaperchéinquestacittànonc'èilmare, e con essa le tanto agognate vacanze e la luce in fondo al tunnel. Apposta per accecarti.

Da qui in poi le cose non migliorano, anzi. D'altronde, come il saggio Murphy ha detto, "se qualcosa può andar male, lo farà". Non mi dilungo perché in un post precedente ho fatto già riferimento alle ferie non ferie - un po' come un reggiseno imbottito su un paio di tette inesistenti, che quando lo togli ti prende lo sconforto - due traslochi, la fine di una storia, le infinite diarree notturne del cane (quasi quasi meglio avere un bambino), la bici rubata, eccetera eccetera. O eccedere eccedere, come diceva mia sorella quando era piccola, che ci sta.

Tutte storie di ordinaria follia, chiaro. Niente di tragico, a pensarci adesso. E' solo che la vita la vivi a pezzetti, mentre ti capitano, e a volte non riesci a fare i conti con tutta la torta e dire "ma sì, a vederla ora non è un granché, ma è lo stesso tanto buona". E te la prendi, te la prendi tantissimo anche perché in fondo pensi, e probabilmente è vero, che in parte sia colpa tua se le cose non vanno come vorresti. Perdi il senso dell'umorismo, e quello è l'errore più grande.

Quando finalmente riesci a vedere tutto con un po' di lucidità, realizzi che di cose belle ce ne sono state, ce ne sono e ce ne saranno. Nel mio caso ho scoperto il Pilates, ho adottato una cagnolina, ho sentito vicine persone che mi hanno dato tantissimo, qualcuna l'ho pure persa ma i passi fatti insieme sono tutti qui con me e non li lascio, ne ho conosciute di nuove che hanno colto non so come il momento giusto per arrivare, ho chiesto scusa ed è stato bello farlo perché quando l'ho fatto avevo torto, certamente ho imparato qualcosa e può darsi che qualcosa l'abbia anche insegnata, fosse solo mostrando la maniera peggiore di reagire alle provocazioni della vita quotidiana.

Non sarò mai esattamente quello che mi piacerebbe essere, un po' perché le mie idee restano chiare per molto poco, un po' perché quelli come me - e sono milioni, non presumo di essere speciale - mantengono sempre un sottofondo d'insoddisfazione.
Quello che so è ciò che di sicuro non voglio diventare, ed è da lì che riparto ogni volta.






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