Insegui i tuoi sogni.
Te lo ripetono in continuazione, è il cavallo di battaglia di milioni di pubblicità e di altrettanti discorsi; la formula infatti risulta affascinante, nonostante racchiuda in sé il senso dell'affanno. Volendo tralasciare il fatto che l'utilizzo del verbo "inseguire" fa sì che si dia per scontato che i sogni stiano andando in direzione opposta rispetto a qualcosa o a qualcuno. E quel qualcuno di norma siamo noi.
E se i sogni invece ci venissero incontro?
Da bambina facevo tante cose stupide da bambini, di quelle che si estinguono col tempo, tipo:
-piangere come una disperata (quest'abitudine non può definirsi estinta, a onor del vero)
-lanciare o distruggere oggetti per la rabbia (successivamente mia madre tentava giustamente di distruggere me)
-fare a botte con mia sorella (ha sempre vinto lei, anche se in quanto a dimensioni era un terzo di me)
-camminare di ginocchia sull'asfalto (ogni tanto il desiderio mi torna, soprattutto se ho avuto la brillante idea di uscire coi tacchi)
-eccetera eccetera (so di non essere così originale da aver bisogno di stilare un elenco completo delle incredibili attività alle quali mi dedicavo)
ma al di lá di queste cosette da poco, mostravo anche una certa propensione all'uso ragionato delle facoltà verbali.
Sì, nei momenti in cui stranamente non cercavo di fare in modo che i miei genitori mi dimenticassero accanto a un cassonetto, mi lanciavo nella scrittura e quando mi chiedevano cosa avrei fatto da grande, senza esitazione rispondevo:"Voglio fare la scrittrice".
Nessun vorrei, nessun mi piacerebbe, nessun sogno di diventare.
VOGLIO.
"L'erba voglio non cresce neanche nel giardino del re." Tanto piacere, evidentemente il re non usa il fertilizzante giusto.
E quindi io scrivevo temi, storie, poesie.
Inventavo di sana pianta anche aneddoti sulla mia famiglia, e per fortuna i miei avevano l'abitudine di rileggere i compiti prima che li portassi a scuola, altrimenti a quest'ora sarei ancora in mano agli assistenti sociali.
Una volta, tanto per dirne una, scrissi che durante i pranzi a casa mia sorella si rifiutava di mangiare e mio padre si arrabbiava moltissimo e gridava come un pazzo, fino a che la vicina spaventata non chiamava la polizia. Nel frattempo, secondo il mio racconto mia madre giocava a carte. Certo. Da sola poi, povera squilibrata.
Ovviamente i pranzi in famiglia sono sempre stati tutt'altro che spiacevoli, ma chissà perché io mi ero convinta che il mio fosse proprio un modo carino di descriverli.
E poi scrivevo di coccodrilli a cui veniva il tetano (probabilmente cercavo di convincermi che qualcosa di buono nel fare il vaccino dovesse pur esserci), pulcini divorati da serpenti che poi li rigurgitavano per compassione...mille e una assurdità all'insegna del gusto dell'orrido.
Eppure la mia è stata un'infanzia più che felice. Che l'ottimismo sia una dote innata?
Adesso che sono (per certi versi) cresciuta, continuo a mescolare le parole a mio piacimento sulla carta, ma ho perso quella caparbietà che mi spingeva a dire VOGLIO diventare una scrittrice. Può darsi che sia successo perché il mio vocabolario si è arricchito e alla parola "scrittrice" si sono aggiunte "talento", "lavoro", "successo", concetti di cui da bambina non avrei mai immaginato di dovermi curare.
Oggi mi dicono che il talento è la "conditio sine qua non" per diventare scrittori, e da qualche anno ho cominciato a domandarmi se nel mio album di figurine CELO o MANCA.
Comunque vada,
se manca, bé...io mi accontento del tunnel carpale.
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